Le opere in mostra hanno l’ambizione di figurare la presenza dell’invisibile nel visibile e l’evidenza dell’incorporeo nel corporeo, con una tensione del visibile verso l’invisibile e del corporeo verso l’incorporeo. Il progetto esprime le visioni distinte di due artisti capaci di comunicare con intensità diverse, realizzando due assiomi opposti e interconnessi e collocandosi in un’area d’interesse che abbraccia il senso stesso della cultura. Incipit del percorso/racconto è dato dalla splendida ed emblematica Cosmogonia di Yves Klein, in cui l’impronta di un corpo è restituita nel pigmento blu, cifra essenziale di tutta l’opera dell’artista francese. In seguito il percorso si snoda in fasi ed episodi molteplici e lontani dall’ispirazione originaria. Sensualità estetica e idea di bellezza elevano corpi e figure dall’immaterialità delle opere e dalla metodologia di lavoro e ricerca. Parallelamente, si avverte un richiamo alla spiritualità dei lavori di Anish Kapoor. La tensione emotiva parte da un desiderio senza nome, da una passione senza oggetto superiore al senso della vita. L’immagine si annulla e permette allo sguardo di volgere l’attenzione su se stesso e sulla propria solitudine. Il segno e il gesto segnano il vuoto e fanno emergere l’invisibile nel visibile e l’incorporeo nel corporeo. Le immagini eteree e rarefatte permettono di comprendere la presenza incorporea delle opere. Leggerezza, impalpabilità e silenzio: sono elementi dell’esposizione e rendono possibile entrare in una diversa dimensione percettiva e conoscitiva. Le stesse immagini rivelano ingrandite, alcune parti del nostro essere che fa emergere una fusione fra spazio, luce, ambienti e atmosfere capace di restituire l’umore di un tempo sospeso, bloccato. Entrambe le poetiche, la fotografia di Giovanni Bigazzi e la pittura di Zeliko Pavlovic, rasentano un mutismo lirico e formano delle aperture sul vuoto, le immagini sembrano rubare l’atto materiale del togliere la materia da parte di uno scultore. Diventa forza dirompente la mano, il colore e il gesto. Si apre un percorso di monocromi con foto capaci di narrare solo la propria imperscrutabile storia. I personaggi rappresentati appaiono come fantasmi, colti da una memoria lontana. La pittura si avvicina alla fotografia divenendo un medium obsoleto e l’obsolescenza permette la conoscenza. Il tentare di superare la rarefazione della tecnica, l’io e l’altro diventano non solo fotografia e pittura ma la rappresentazione di un pensiero con azione e fatto. Le opere immortalano e ricercano uno spazio ‘concettuale’. Le stesse immagini sembrano mutare sotto i nostri occhi, pare di osservare la leggera foschia dei paesaggi autunnali o il mutare della luce all’imbrunire. Raccontano lo spostarsi leggero dell’atmosfera (intesa come aria), mentre si cammina. Il dialogare in parallelo si scopre nell’utilizzo del linguaggio fotografico e nella disposizione degli ‘oggetti-fotografie’ nello spazio reale. Davanti alle immagini ci si sofferma, cercando di comprendere nel visibile l’invisibile. Si assiste al tentativo di recuperare gli antichi modi della cultura mediterranea, attraverso decorazioni e simbologie desuete. Nelle opere sopravvive il senso del mistero, l’aspirazione alla bellezza, le immagini cosmiche e fantasiose, la personificazione di un’eterna infanzia. I lavori reagiscono alla frammentazione del reale, e si pongono in libera associazione fra loro. Sono frammenti di una realtà, capace di connettersi grazie a un’immaginazione comune. La pittura riunisce un significato profondo nello spazio ridotto di un disegno minuto, creando una visione che non riproduce il mondo, ma lo sostituisce e la foto-grafia è segno indelebile dei pensieri-azione. I diversi personaggi appaiono come fantasmi, e più che ritratti sembrano giungere da una memoria lontana. E rimangono liberi Il tutto si addice a ciò che permane invisibile nel visibile e a ciò che d’incorporeo vi è in un’opera. Una mostra senza cornice, in cui spazio e crudità dello scatto si affermano con la forza del gesto..