Aura
…il respiro dell’atmosfera.
“…trovassi al fiume in un boschetto adorno che lievemente la fresca aura muove.”
L. Ariosto
Torno a presentare un nuovo lavoro di Giovanni Bigazzi, artista che da anni ricerca un diverso linguaggio e una possibile comprensione con la propria fotografia. Con questo non voglio sembrare troppo esaustivo, credo che la cercata corrispondenza si possa dire che sia stata intravista, anzi trovata e compresa.
E’ un lavoro che si pone nella percezione dei sensi e contemporaneamente si vuole prestare a una diversa e possibile interferenza tra immagini e un percorso interiore, dove le attenzioni si dispongono in attesa, fissando il silente raggio di un atmosfera.
Presento questo lavoro citando un pensiero del poeta Inglese Dylan Thomas, “ …spesso lascio che un immagine si produca in me emozionalmente, e quindi applico ad essa quanto posseggo di forza critica e intellettuale…”. Credo che, ugualmente, nella mente , o meglio, nello sguardo di Bigazzi, si affittiscono quei significati soggettivi che vanno a intervallare quel “suono” di significati che solo se cogli lo scorgere di una tematica, si possono diversificare nell’apprendimento naturale. Questo avviene se la visione che si cerca è fondamentale e apparentemente in contraddizione, come dire: quello che sento è così evidente in ciò che vedo che mi basta ascoltarlo e tutto diventa magia e desiderio, e solo se il mio respiro mi permette di assaporare quel docile vento di una nascita o di una morte, posso decidere di soffermarmi e violare quell’intimo “racconto”. Perché è di un racconto che l’artista ci invita a vedere una trama che si dilaga in diverse, possibili ambivalenze poetiche e nello stesso istante diventano immagini, scatti fotografici che , come in una scena senza soggetto, riescono a raccontare un possibile dialogo.
Le fotografie che vediamo sono accuratamente scelte e decise, e non solo nella loro rappresentazione, ma anche in una determinata selezione tecnica. In questo lavoro la possibilità di una luce, di un ombra, di un contrasto, di una variabile cromatura, hanno un senso esplicativo nell’unità sostanziale , creando la continuità di un immagine fino a scontrarsi con l’essenzialità di una percettibile atmosfera e crearne una in sequenzialità emotiva. Ci appare come un solo intreccio, fatto di simboli e di sostanze naturali, che in principio hanno forma e in un secondo momento diventano metafore della stessa identità.
Vorrei soffermarmi su alcune delle fotografie che Giovanni Bigazzi ha installato. Non voglio tracciare un profilo tecnico e ancor meno un giudizio critico, ma quanto un effettivo sguardo su lo stesso sguardo che l’artista ha deciso di fermare.
L’intrico delle immagini e il punto di vista nelle fasi che riassumono tutto il percorso immaginario, ci conducono ad alcune affermazioni di carattere soggettivo, ma anche puramente emotivo.
La scelta di tracciare una simbiotica decifrazione di luci e ombre e poi destinarle alla sanità di un possibile mito, lascia assaporare qualsiasi interpretazione, ma l’accuratezza con cui vengono decisi gli spazi e le immagini, immediatamente ci mandano nel soggetto e nell’allegoria del “viaggio” che Bigazzi vuole condurci.
La densità dei segni, che nelle inquadrature sono evidenti fino a traslucidare il diaframmatico spettro cromatico e il lucido smerigliamento dei soggetti appena accennati, lascia intra-vedere la sostanza della forma fino a riconoscerne la forza e l’ambiente, come uno specchio antico, dove il riflesso appare appena evidente e offuscato e radente al punto di variarne ogni sembianza.
L’evocazione delle immagini, in apparenza assoggettata a scampoli della natura, o meglio, ad angoli di paesaggi, quasi zone limitrofe , leggermente variate da un vento primordiale, dove piante ventose si appoggiano in bianchi putridi acquitrini o rottami di legni antropomorfici, scambiano l’ombra con la reale sostanza, dando vita a un “viaggio” dell’anima. Quelle “zone”, cosi dedite a presenziare un tempo e da questo fuggirne nell’irrevocabile flusso della vita, spinge la scelta dell’artista verso una spiritualità inquieta e nello stesso momento sicura ancora della salvezza.
Bigazzi sistema le sue foto-zone, l’una in relazione all’assunto poetico, dove il silenzio e l’attesa creano un introspezione fantastica, una domanda dove non dobbiamo dare risposta, se non verso il funesto desiderio di dominio.
L’opera, le fotografie si installano seguendo non tanto lo spazio ma quanto il racconto e, posso azzardare, mi viene in mente un film del 1979 di Andrej Tarkovskij, “Stalker”; un importante lavoro, dove la trama è assoggettata al tempo delle immagini e regnano con forza e profonda sensibilità nello sguardo dell’osservatore.
Un opera filmica, ma carica di fotografia destinata al racconto, ed è in questo che l’associazione mi è venuta spontanea e non tanto nel tema del film, ma quanto nella scelta fotografica e nel porre il silenzio come soggetto primario a scandire il tempo delle stesse inquadrature. Bigazzi, in un certo senso, percorre lo stesso schema semantico, acquisisce la logica e il senso e , con accettazione, si porta in quella stessa metafora formale: comprende l’importanza del soggetto e lo fa particolare e frammento.
La stessa costruzione “topografica” che Giovanni sceglie nel sistemare le fotografie, allarga la visione verso la simbolizzazione degli stessi soggetti che ha fotografato. Sceglie la leggenda sacra, quell’aura che circonda determinati simboli e li rende ricerca di un “Giardino dell’Eden” che non sdegna di presenze trovate nel mito e, come un requiem, estremizza con il segno dell’elemento, il fondo più fondo, dilagando lievemente in placate voci della natura.
Posso solo aggiungere che l’elevata ricerca fotografica di Giovanni Bigazzi, in questo progetto, si è avventurata in un diverso modo di rendere possibile un proprio bisogno. Il tono severo con cui cerca di entrare in relazione con il sentimento lo porta lontano, dove principio e fine sono la stessa cosa , e come un fuoco lentamente spinto da un leggero venticello, può diventare un falò.
E adesso che l’artista ha scelto di raccontare a noi tocca solo leggere le sue immagini e tramutare il semplice fatto in una più profonda relazione.
“…Vorrei volgermi e correre
Alla terra nascosta
Ma il sole chiassoso
Giù battezza
il cielo.”
Dylan Thomas
Massimo Innocenti
Agosto 2013
Massimo Innocenti, gennaio 2014
E’ sempre difficile aggiungere parole quando un’ idea abbraccia il suono con le immagini e in questo tentativo si sente chiaro quello che può accadere.
L’idea non è del tutto originale, ma è possibile catturarne una diversità e non tanto nel rapporto tra fotografia e musica, ma quanto nel divenire dei sentimenti, in quelle suggestioni che nascono da un incontro. E qui, in Blue-s gli incontri sono stati diversi e tutti capaci di individuare le possibili personalità.
L’influsso di un colore, la ricercata combinazione tra il luogo e il suo segno, il silente suono di un istante e la ricercatezza di una armonia sentita tra le note spezzate di una improvvisata consonanza, danno fascino all’esatto contrasto tra il vibrare del segno e l’ondulato accompagnamento di suoni e parole.
Blue-s penetra nel fondo delle note, da un rigore formale a un più ampio punto di vista. Un susseguirsi di ricognizioni e aperture che creano rapporti e stimoli e che provano a far sentire l’inesplicabile variare delle sensazioni.
L’approccio tra un’ immagine e il suo suono non e vincolante, ma può far toccare l’atmosfera di un momento e con quella passare a vivere attimi non riconoscibili, ma senza dubbio provati o immaginati.
Qui, in questo nuovo posto, rimangono in sosta tutti gli elementi reattivi che possono far scambiare un luogo per un sogno, un tempo per un desiderio.
L’incontro è stimolo e il Blu in Blues diventa tematica alimentando il ritmo e la dialettica dell’esistente, fino a trasfigurare il simbolo per il suo originale segno, per poi invitarci a sfiorare quegli aspetti effettivamente riconoscibili.
E’ qui che l’idea diventa diversa; diventa trascendente, un tempo inattingibile, identificato nella forma e nel continuo dialogo tra suoni e colori.
Blue-s invita a esserci, a trovarsi in questo luogo per andare a scoprire il suo stesso fascino e di conseguenza schiarire l’ermetismo visivo e, con il canto del suono, penetrare nell’idea e da questa far nascere una continua esplorazione di quelle visioni che sono propense a venire.
La fotografia, la musica, il suono delle parole, l’atmosfera dello spazio diventano blu e rinascono BLUE-S, e come un viaggio orfico sotterraneo, riescono a veder la luce solo quando si compiono in assenza e diventano sostanza alle radici dell’ispirazione, tramutandosi in improvvisazione.
Assistere, “stare in Blue-s” è causa ed effetto di un breve momento, ma se colto nell’istante diventa naturale sostanza.
Ascoltare con gli occhi e un transito nell’incarnato amore per l’autonomia del verso e del suo sentimento.
Angelo Minisci, Firenze, marzo 2013.
Le opere in mostra hanno l’ambizione di figurare la presenza dell’invisibile nel visibile e l’evidenza dell’incorporeo nel corporeo, con una tensione del visibile verso l’invisibile e del corporeo verso l’incorporeo. Il progetto esprime le visioni distinte di due artisti capaci di comunicare con intensità diverse, realizzando due assiomi opposti e interconnessi e collocandosi in un’area d’interesse che abbraccia il senso stesso della cultura.
Incipit del percorso/racconto è dato dalla splendida ed emblematica Cosmogonia di Yves Klein, in cui l’impronta di un corpo è restituita nel pigmento blu, cifra essenziale di tutta l’opera dell’artista francese. In seguito il percorso si snoda in fasi ed episodi molteplici e lontani dall’ispirazione originaria.
Sensualità estetica e idea di bellezza elevano corpi e figure dall’immaterialità delle opere e dalla metodologia di lavoro e ricerca. Parallelamente, si avverte un richiamo alla spiritualità dei lavori di Anish Kapoor.
La tensione emotiva parte da un desiderio senza nome, da una passione senza oggetto superiore al senso della vita. L’immagine si annulla e permette allo sguardo di volgere l’attenzione su se stesso e sulla propria solitudine.
Il segno e il gesto segnano il vuoto e fanno emergere l’invisibile nel visibile e l’incorporeo nel corporeo. Le immagini eteree e rarefatte permettono di comprendere la presenza incorporea delle opere.
Leggerezza, impalpabilità e silenzio: sono elementi dell’esposizione e rendono possibile entrare in una diversa dimensione percettiva e conoscitiva. Le stesse immagini rivelano ingrandite, alcune parti del nostro essere che fa emergere una fusione fra spazio, luce, ambienti e atmosfere capace di restituire l’umore di un tempo sospeso, bloccato.
Entrambe le poetiche, la fotografia di Giovanni Bigazzi e la pittura di Zeliko Pavlovic, rasentano un mutismo lirico e formano delle aperture sul vuoto, le immagini sembrano rubare l’atto materiale del togliere la materia da parte di uno scultore.
Diventa forza dirompente la mano, il colore e il gesto. Si apre un percorso di monocromi con foto capaci di narrare solo la propria imperscrutabile storia. I personaggi rappresentati appaiono come fantasmi, colti da una memoria lontana.
La pittura si avvicina alla fotografia divenendo un medium obsoleto e l’obsolescenza permette la conoscenza.
Il tentare di superare la rarefazione della tecnica, l’io e l’altro diventano non solo
fotografia e pittura ma la rappresentazione di un pensiero con azione e fatto.
Le opere immortalano e ricercano uno spazio ‘concettuale’. Le stesse immagini sembrano mutare sotto i nostri occhi, pare di osservare la leggera foschia dei paesaggi autunnali o il mutare della luce all’imbrunire. Raccontano lo spostarsi leggero dell’atmosfera (intesa come aria), mentre si cammina. Il dialogare in parallelo si scopre nell’utilizzo del linguaggio fotografico e nella disposizione degli ‘oggetti-fotografie’ nello spazio reale.
Davanti alle immagini ci si sofferma, cercando di comprendere nel visibile l’invisibile. Si assiste al tentativo di recuperare gli antichi modi della cultura mediterranea, attraverso decorazioni e simbologie desuete. Nelle opere sopravvive il senso del mistero, l’aspirazione alla bellezza, le immagini cosmiche e fantasiose, la personificazione di un’eterna infanzia.
I lavori reagiscono alla frammentazione del reale, e si pongono in libera associazione fra loro. Sono frammenti di una realtà, capace di connettersi grazie a un’immaginazione comune. La pittura riunisce un significato profondo nello spazio ridotto di un disegno minuto, creando una visione che non riproduce il mondo, ma lo sostituisce e la foto-grafia è segno indelebile dei pensieri-azione. I diversi personaggi appaiono come fantasmi, e più che ritratti sembrano giungere da una memoria lontana. E rimangono liberi
Il tutto si addice a ciò che permane invisibile nel visibile e a ciò che d’incorporeo vi è in un’opera. Una mostra senza cornice, in cui spazio e crudità dello scatto si affermano con la forza del gesto..
Giovanni Bigazzi, marzo 2013
Zeijko Pavlovic ed io, Giovanni Bigazzi, ci siamo incontrati e trovati nel contesto della Libera Accademia di belle Arti. Un incontro che ha subito rivelato una forte intesa e due linguaggi “diversamente simili”. Con nette differenze nell’uso dei materiali e nella lettura delle proporzioni, Zeijko tramite l’uso della pittura e dell’incisione, io attraverso l’ elaborazione da un negativo o da una foto digitale.
Diversamente simili nell’accostamento di esperienze diverse, ma certamente uniti dal flusso delle linee, dei colori e dalla sperimentazione nel plasmare la materia.
Le stesse esperienze negli studi e nel rispettivo apprendimento, hanno senz’altro favorito un amalgama tra i lavori, incoraggiandoci a interagire con lo spazio a disposizione.
Le forti similitudini stanno nell’attenzione alle forme e agli equilibri cromatici dei nostri soggetti e
a una ferrata idea di ritmo e di luce, di armonia e materia, fondendo così le diverse ricerche.
Zeijko si ispira alla musica barocca; io, essendo la musica l’altra mia dimensione lavorativa e di ricerca, questa mi porta a un attento equilibrio tra immagini e ritmi nella fotografia.
In fondo fotografare è dare una lettura degli elementi circostanti ognuno secondo la sua sensibilità e il punto di vista… “il paesaggio è pieno di segni simboli, di cose nascoste” (Mario Giacomelli).
Questi elementi si possono tradurre in materia tangibile (dipinto, disegno o foto stampata ) e quindi potrebbero interagire con uno spazio, che sia tra le mura di una casa, come in un luogo esterno. In questa esposizione è stata la prima volta che ho visto le mie fotografie composte in una maniera apparentemente inusuale, ma questo non ha un accezione negativa, dà invece una soggezione iniziale nel vedere le fotografie e i dipinti catapultati in posizioni e distanze asimmetriche, ma che in realtà seguono una linea di un’onda che traccia il perimetro dello spazio.
Una modalità per me inedita nel presentare le foto, ma in un’alternanza di vicinanze e vuoti attivati, per uniformarsi ai dipinti di Zejiko. Proprio questi vuoti attivati hanno permesso di creare un raccordo fra i singoli lavori e di farli reagire nei blu, nei neri e nei bianchi, colori prevalenti nell’ “opera unica” dell’ installazione.
Uno stravolgimento di abitudine nelle dimensioni variegate delle immagini e soprattutto nella lettura dello spazio espositivo. Il nostro intento non è quello di creare un classico dialogo alternato da foto e pittura, in molti casi efficace, ma talvolta col rischio di scaturire una frammentazione disarmonica.
Il nostro tentativo sta nel voler dare vita a una trama di immagini con mezzi espressivi diversi, un intreccio con lo spazio steso, un luogo che nella sua dinamicità presuppone un attenzione nel posizionare le opere stesse, seguendo un’idea geometrica e uno svolgimento asimmetrico.
Questi giochi di volumi, forme e colori, tra accostamenti e vuoti, diventano punti di raccordo, facendo si che le immagini si armonizzino fino a dare vita a un’opera unica.
Massimo Innocenti, agosto 2012
Quali i termini abbastanza semplici nella loro complessità e sufficientemente corrispondenti possono nella loro sublimità dar vita a una enunciazione emotiva?
Intendo parlare di due caratteristiche speculari, due caleidoscopiche dimostrazioni solitarie
che si sospendono in rarefatte emozioni, dove le mirabili diradazioni si tramutano in sostanze e materie, in specchi infiniti e scemati da un proseguimento dell’immagine.
Potenzialmente è evidente, quanto semplice, l’io e l’altro riflessi in una sola dimensione, ma in mezzo, nel mezzo della sostanza, nella scelta artistica ci attende un linguaggio, una voce che non si deprime, ma che resta veicolo unificante fino a darci splendori e suoni attraverso il silente rumore dell’epilogo del tempo. Il caso è che due artisti tentano di valicare tale rarefazione e non si scelgono per somiglianze tecniche, ma quanto per differenti principi: da una parte l’immagine riflessa e foto-grafata, dall’altra la pittura come infinito, una rappresentazione di un pensiero come pensiero.
Lo slittamento che i due artisti cercano di provare, nasce da un possibile ribaltamento che li fa caricare di provabili equilibri, fino al punto di tracciare uno stesso percorso che, rispetto al comune senso estetico, si va ad arrovellare in lievi scenari quasi tradizionali, quasi, pittoricamente parlando, prospettici, ma che invece si avvalgono di una totale differenza segnando una semantica distorsione, rendendoli l’uno vicino all’altro senza mai mescolare il linguaggio; e dove diventa necessario, subentra il caso, che certo ha costantemente un suo ritmo intromissivo, quasi a reclamare un suo, del caso, diritto, una specie di trama, in un rapporto a due, ma non prevedibile. A tale speculazione emotiva le probabili assonanze rappresentano un esercizio di forma, sembra una composizione letteraria, o meglio , un’armonia di segni e parole conditi da materia e sostanza: una casualità barocca e informale, fino a quel reale orfismo metafisico, che lascia decadere ogni possibile impegno, per denunciare qualsiasi possibile disinpegno.
Quanto al lavoro dei due artisti non possiamo individuare delle somiglianze, perché queste renderebbero vano ogni tentativo poetico, quello che invece bisogna cogliere sono le varianti discordanze e le possibile assonanze e il tentativo di violare un percorso con una organica funzionalità espressiva. La scelta delle pitture e delle fotografie, non sono una risultanza interpretativa, ma quanto un valore trascendente che va ad incunearsi nel caso e nel vuoto, fino a manifestare un tracciato inesplorato, ma preciso e ben dettagliato, dove funzione e crescita danno al tempo la precisa probabilità di occasionalità. Così facendo le opere si coltivano un proprio terreno, formando limiti invisibili e nello stesso tempo valicabili fino al punto di riconcepire il limite.
Giovanni Bigazzi usa la fotografia, mentre Zeliko Pavlovic la pittura, entrambi lavorano da anni a ricerche separate, ma l’occasione di contrapporre le rispettive tematiche in uno spazio, o meglio, linguaggio comune, li ha resi soggetti di un paesaggio inarginato.
La particolarità di Bigazzi sta nella sua stessa “elementarità”, così articolata nei particolari che ogni fotografia diventa assenza in continua ricerca di presenza, tale a variare, come un vortice di moscerini prima di un temporale, in purezza qualunque condizione naturale. Per poi travaricare ogni possibile linea di demarcazione e raggiungere una storia fedele al mistero di un linguaggio emotivo, nell’inevitabile parte d’ignoto che esiste in una possibile verità. Ed è come una presenza che va al di là dei limiti, per riconoscere un patrimonio che non si inebria solo di colori, ma che rifiuta il sentimentalismo che cade nell’intimismo e nella possibile scadenzialità di un probabile spettacolo di se stesso, ma invece cerca e ferma immagini divulgatorie d’ incanti inattivi, dandogli voce e sospiri, per poi incominciare dall’esistenza e raggiungere un filo che unisce, come una chimera, l’illusione metafisica di un possibile tempo inatteso.
Zelico è pittore, dipinge la mente nel suo passato, ma volontariamente la ricorda come intuizione identica al punto di partenza, così facendo trae dalla sua esperienza un’ irresistibile intuizione che gli fa arginare la storia per poi dirigersi verso un infinito astratto. Così, sente, non solo la discordanza tra il reale e la sua dimostrazione matematica, ma quanto la propria verità da un unità originaria come sorgente universale e dove il semplice mescolamento di linee e ritmo, vanno a forgiare uno spazio dedalico pari alle più oscure architetture mentali. Non sceglie il mistero o l’ignoto, ma quanto l’esitazione dimostrata dall’osservazione di un attimo e la sua diffusione in proprietà geometriche, vivendo costantemente irradiazioni emotive che, affacciandosi al tempo, aumentando i quadri delle distanze dal corpo a un autentica proporzione immaginaria, trovando così un assoluto originario.
Nell’intreccio compositivo e nel suo variare, che i due artisti tentano di rappresentare, è possibile inserirsi assestando spazi di un unicità poetica, che non traggono elemento da una sola , ignota armonia, ma quanto da una possibile suggestione analitica. Spazi di sintesi in minori luoghi, attimi di circoscrizione fungenti da fondi o quinte di scene principali, tratteggianti quadri nei significati assolutamente invisibili e, nello stesso istante, riflettenti, al punto di raccontare mute sensazioni e note di colore.
Ecco quindi il sentimento che si aggira tra le violabili circostanze, dove la partecipazione, trovando la giusta dimensione tra un silenzio colorato e un brillio evanescente, si dimostra parallela alla stessa poetica, invitando il bilico soffermare della vista in una fenomenica cecità interiore. In questa possibile variazione di combinazioni è la ricerca di questi artisti, o meglio, della loro sovrapposizione di quadri infiniti che tendono sempre più ad allargarsi in misteriosi crepuscoli, dove ogni frattura si annulla per trovare nei sensi l’uso di una facoltà, quella principe: quell’aurora senza tempo che decanta il suono con lo spirito.
Questa duplicità crea due ordini di veduta, due parallelismi che cercano semplicemente il mezzo, ciò che sta tra loro e lo spazio indiscutibile di una possibile rivelazione, una verità senza dogmi o pregiudizi, ma tentando solamente di cercare un carattere conduttore che trascina la variabile circostanza verso una desiderata sosta. Entrambi indagano e avanzano per ipotesi, lasciando scoperti tutti quei segni e sensazioni che sono serviti per decifrare giuste proporzioni e slanci infiniti d’incanti. Ciò che una trama di un racconto, senza alcun soggetto, cerca in un probabile personaggio di far raccontare e interpretare il verso di un possibile dialogo. E allora, qual è il fatto? Non soltanto in ciò che si dimostra, che ci dimostrano, ma quanto in una pensabile conclusione che non possiamo negare, anche se tale negazione è proprio nella valenza di ciò che vediamo in questo tentativo, ma il solo negarla, la conclusione, ci rende partecipi a questo viaggio d’uscita da una deduttiva esperienza. Ma è all’infuori della logica la veracità poetica del loro cercare, e tale idea è piacevole, discutibile, ma senza dubbio accattivante proprio perché dimostra una non possibilità di tracciare chi sa quale concezione o logica plausibile, se non quella di trovare il punto infinitamente lontano di un cerchio e il suo assioma d’attrazione poetica.
Sarà prontamente fattibile non comprendere tale tentativo, ma la circostanza e il valore dei due artisti possono delucidarci da qualsiasi ombra e se nella loro ricerca esiste una discordanza, è questo che cercano: disarticolare le armonie per correre all’ombra dell’irrelativa emozione e percepire quelle irradiazioni uniformi che si vanno a conficcare in ogni luogo.
Dunque, questi lavori, questo lavoro, perché e di un solo lavoro che saremo spettatori, di un unico percorso che si manifesta in tutta la sua intenzione narrativa, in quel modus scribendi dove riflettere la forma e la sua dimensione, la storia a conferma di talune costanti che dallo spirito al corpo si rendono immagini e pensieri. Immagini e riflessi che sono nati tutti da una facoltà intuitiva, da una madre che è origine di tutte le scienze e padrona dell’immaginazione, che tra il reale e il suo opposto , lascia divertire i preamboli del sobbalzo fino a decantare la possibile apparizione: ecco quindi il sentimento, ecco l’universo, eccoci nella Terra e immersi in essa.
“…dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; …”
da “L’INFINITO” di Giacomo Leopardi
Angelo Minisci, settembre 2013
Vorrei iniziare il racconto, con un’immagine visionaria di Baudelaire che dipinge il poeta moderno come uno straccivendolo: “Tutto ciò che la grande città ha gettato via, tutto ciò che ha perso, tutto ciò che ha disprezzato, tutto ciò che ha schiacciato sotto i suoi piedi, egli lo cataloga e lo raccoglie…”. Egli classifica le cose e le sceglie con accortezza; egli accumula, come un avaro che custodisce un tesoro, i rifiuti che assumeranno la forma di oggetti utili o gratificanti tra le fauci della dea dell’industria.”
La metafora di Baudelaire ci porta, infatti, direttamente al nocciolo del problema: la domanda se sia possibile sostenere che la fotografia è un readymade o meno. Affiorano, fin da subito, problematiche centrali relative a entrambe gli ambiti: l’immagine del flâneur che percorre le strade abbandonandosi al caso e che, guidato dall’inconscio, sceglie con cura tra gli oggetti trovati e li raccoglie con un gesto istantaneo, è per noi significativa.
Normalmente siamo abituati a percepire e individuare le “cose” attraverso immagini fotografiche identificabili in modo esplicito. Il lavoro che Giovanni Bigazzi propone, è un’punto di vista singolare, attraverso inquadrature con riflessi di momenti e luoghi non sempre riconoscibili.
Cì propone un viaggio reale, non a rappresentare unicamente i luoghi simbolo né a scoprire angoli nascosti, ma a cogliere situazioni e porre l’attenzione verso frangenti a volte sfuggevoli a un occhio disattento. Vengono in questo modo rappresentate il mondo del reale, non esclusivamente attraverso la memoria che abbiamo di esse, ma con inquadrature inedite, seppure autentiche, d’immagini istantanee riflesse con effetti di sovrapposizione. Non si tratta di doppie esposizioni, di rielaborazioni fotografiche in postproduzione, ma di percezioni e tagli fotografici risolti e definiti nella loro compiutezza nell’attimo stesso dello scatto fotografico. Vedere, con il taglio della macchina fotografica concentrato su dei dettagli e su momenti singolari, può offrire visioni particolari e speciali. Si generano spesso situazioni aperte a letture ambivalenti nel rapporto figura-sfondo e dagli strani e a volte sorprendenti effetti fotografici. È uno “scrivere con la luce” che, in alcune particolari circostanze, riserva sorprese allo stesso autore. È anche un modo per mettere in gioco diversi stimoli visivi attraverso percezioni, che, seppure siano parziali e frammentarie e talvolta rapide e fuggevoli, sono reali e veritieri nel rappresentare il senso del luogo. Gli elementi mobili e temporanei sono in un contesto urbano altrettanto significativi quanto le presenze stabili.
Si tratta di un modo per acquisire nuove sensazioni e conoscere il mondo reale attraverso parti che possono in seguito, essere ricostruite con le immagini scattate e relazionate per singoli momenti situazionali, senza perdere di vista l’insieme ambientale. E’ quindi un modo di osservare i luoghi, gli oggetti e non solo finalizzato a ricevere nuovi impulsi sensoriali e interpretativi.
E’ facile cogliere la sottile poesia che attraversa questi scatti e frammenti di visione, lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla luce del sole colta in attimi magici, in momenti irripetibili e certamente tale aspetto è un motivo dominante, come un processo di svelamento dello “spettacolo” della natura: dal ritmo delicatamente mosso dell’acqua increspata, al vuoto riempito dei colori. Altrettanto intensa, oltre alla componente più emotiva del lavoro, è la ricerca sui valori cromatici e sulle possibilità mimetiche e allo stesso tempo trasfiguranti della fotografia. Nelle immagini dedicate all’acqua, emergono con evidenza qualità pittorica e segniche che sono peculiari della pittura: la vibrazione che nasce dal contrasto tra ombra e zone luminose si sovrappongono alla ricerca di una particolare tonalità cromatica che trascolora dall’azzurro, all’oro, dal rosso al grigio. E su due versanti diversi, ma sempre avvicinabili al gusto pittorico, sono i colori e i segni delle altre due serie d’immagini: decantate, dal ritmo lento e contemplativo, tornano a confrontarsi in una ricerca che ha i toni della raffinatezza e della sottigliezza visiva ed emotiva.
Il fotografare è la prefigurazione dell'esito espressivo che avverrà all'atto della restituzione in un quadro dell'opera come momento finale di sintesi di una propria ricerca poetica, fondata su raffinati equilibri formali, in cui il valore risiede tanto nell'opera che nell'atto fotografico. Le sue immagini, pur mantenendo come referente il soggetto fotografato, perdono il senso delle profondità, delle distanze, delle grandezze e dello spazio ambientale: sono inquadrature di particolari, di ombre riportate, di partiture spaziali e formali, di frammenti e dettagli isolati.
Un dettaglio visivo, enfatizzato nel processo di stampa, perde la propria fisicità e il senso dell'insieme cui appartiene per dissolversi nella bidimensionalità e, a volte, in una sorta d’immaterialità, al fine di comunicare una nuova appartenenza e identità espressiva. Il soggetto è razionalizzato per sottrazione, attraverso un riporto rappresentativo costituito da pochi elementi di un intenso cromatico.
Le opere di Giovanni accomunano figurazione e astrazione, in uno scambio continuo e ininterrotto: la figurazione è il referente della ripresa fotografica, l'astrazione è ciò che diviene la riproduzione separata dal soggetto fotografico originario. Accomunano anche racconto e iconicità: il racconto è la ripresa della realtà secondo un proprio itinerario di sensibilità narrativa che avviene con la raccolta di immagini visive, la iconicità è il depositare stabilmente sul quadro le immagini selezionate.
È il pensiero delle cose, è da intendersi il nostro pensiero sulle cose, soluzione che parrebbe la più ovvia, o davvero il pensiero esercitato dalle cose.
Le cose pensano, dunque.
Piccole cose: cose trascurate o trascurabili per la loro presunta insignificanza e banalità, per la loro piccolezza appunto. Il senso di piccolo da cui si vorrebbe partire e su cui s’intende qui puntare l’attenzione non corrisponde alle accezioni di “ristretto, angusto, secondario, irrilevante” ma rimanda piuttosto a quelle di “minuscolo, umile, dimesso, ordinario, quotidiano, familiare”. In questo senso, assumiamo che ciò che è piccolo ci è caro perché è domestico, addomesticato o addomesticabile e anche perché ci parla allusivamente – su piccola scala, appunto – di ciò che è grande, cioè importante e rilevante per noi, per la nostra vita immersa in una quotidianità apparentemente banale ma attraversata anche da relazioni, progetti e valori che ci premono e per questo sono grandi: essi lo sono individualmente per ciascun individuo e nello stesso tempo acquistano una valenza collettiva e condivisa, proiettando sul sociale la loro ombra.
Non si deve sentire tanto la necessità di uno spirito del tempo, ma piuttosto la necessità di un atteggiamento “cosciente” e responsabile. Scrive Giorgio Agamben in “Che cos’è la contemporaneità”: “…ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo!?”.
Massimo Innocenti, dicembre 2010
Blu, come il segno infinito che raccoglie ogni sguardo, come il giardino delle Esperidi dove coltivavano il melo dai frutti dorati, eccomi davanti alle fotografie di Giovanni Bigazzi. Immagini che predominano ogni possibile violazione della suggestione e che lasciano scandire quel frastuono assordante che solo il silenzio della penombra lascia sentire. Affondate come ombre, questi nuovi scatti di luce lasciano disorientare l’attimo fino al punto di non sentire altro che il senso, il limite possibile che divide il tempo dal suo stesso attimo.
Fotografie sorprendenti e dolcemente assopite dalla loro stessa incertezza, fino al punto di destare quell’oscuro desiderio che soggiorna nelle orlature della notte. Di notte appaiono, sconnesse, lineari fino a confondere il crepuscolo con l’aurora, fino ad assecondare la geometria con la melanconia. Bigazzi apprende sempre di più la delicatezza dell’atmosfera fino a toccare il risveglio e nasconderlo con il sonno perenne della terra, coglie e semina quel fragore inesistente dell’arco sospeso che traina il vento recondito dei sogni e, da quello, sceglie i contrasti supremi della Volta Celeste. Giovanni ha imparato a fermare il suo dinamico groviglio mnemonico e ha reso evidente il suo stupore,cercando tra le linee e le forme dell’incertezza la possibile ragione della vita.
Queste fotografie sono Blù, ma del blù non nascondono niente, anzi lasciano che di esso si assapori ogni sottile evanescenza fino a cercare, tra i rivoli del selciato quel chiarore impossibile che solo la notte lascia vedere. Queste fotografie donano l’oscurità fino alla possibile chiarezza delle ombre, trasportando l’incanto declamatore di stelle settembrine, di chiarori arrossati fino all’ultimo tendaggio di civili abitazioni.
Queste immagini di Bigazzi sono tutte su la strada, su la sponda di un ipotetico solco che con sapiente maestria Giovanni ci lascia intravedere, scandendole fino all’esagerata consacrazione di un celestiale avvento: la linea blù di un segnale.
Avere davanti queste fotografie di Bigazzi mi lascia senza tempo, anzi, sospendono il mio tempo fino all’estremo cardine dell’orizzonte. Vedo, in questi scatti, il segno dell’ordine e dell’imperfezione e gradisco quel sapore meringato della mia storia. Ma come ogni limite mi costringe al ricordo e alla sua stessa fine, a quel terso campo di cielo che si rifletteva nelle pozzanghere e che fino all’ultimo piede, prima della corsa, non si lasciava muovere. Acqua e cielo, strada e campo sono le emozioni, ma anche il luogo di queste blù impressioni, fotografie rastrellate nella notte tra le umide sembianze e le calde illuminazioni di quadranti quotidiani.
Giovanni ha messo tutto in questi scatti, ma più di tutto ha immerso il suo cuore fino a raggiungere la poesia della “vita del cielo” e da essa ha saputo cogliere solo quella mossa essenziale che ha donato il giusto riflesso.
Queste fotografie sono il volto della sospensione e se sai osservarle scoprirai il suo occhio e il viso della notte gli starà accanto, come Giovanni gli è stato compagno e seducente nottambulo, fino a scoprire la loro fine.
Giovanni Bigazzi, aprile 2010
Del tempo non mi importa.
È l’espressione che è importante e il segno che essa può lasciare; che stia dentro una frazione di secondo come in un attesa dilatata.
La mia linea dell’orizzonte sta solo dove io guardo!
Io non mi sento artefice dell’arte, è l’Arte che mi chiama.
Ogni qual volta di fronte a me si manifesta, ecco che li io divento uno strumento per comunicare con lei, che è un entità vasta e aleatoria.
Io come strumento posso coglierne qualche frammento, quando mi sento spinto al tentativo di farlo e qualche volta ne rendo tangibile la sua luce su un pezzo di carta.
L’arte si manifesta “prima” e “durante” il mio volere, non sono io che lo determino, è lei che proietta i suoi raggi quando io vedo e “riconosco” un segno ai confini di ciò che sento o desidero; che sia mare, terra, cielo, anima o respiro.
Ogni qual volta che si è mossi da un segno, da un suo richiamo, ecco che allora il punto di vista del fotografo sta nell’organizzare i dati obbiettivi nella scelta dell’ inquadratura, nella decisione di un punto di vista, dei chiari e degli scuri, nella possibilità delle relazioni tra gli elementi che si presentano al suo sguardo.
Li sta la mia posizione, la scelta che poi rende la mia foto unica attraverso le diverse fasi; dall’ispirazione, allo scatto, alla stampa.
Paul Strand, nel 1917 sosteneva:
“E’ questo il momento in cui la concezione formale che nasce dall’emozione e dall’intelletto è assolutamente necessaria al fotografo prima di scattare una foto, quanto lo è al pittore prima di mettere mano alla tela.
Gli oggetti possono essere visti in modo da esprimere le cause di cui sono gli effetti, oppure si possono usare come forme astratte per creare un’ emozione indipendente dall’ oggettività in quanto tale.
È qui che onestà e intensità di visione risultano essere i requisiti primi di ogni espressione vitale …”
E’ l’atto creativo che fa da movente, da un emozione che dalla pancia viene condotta fino alla mente e ti stimola a un azione.
E’li che l’Arte mi chiama a cogliere i suoi frammenti, a farseli intrappolare dal mio occhio, dalle mie “Virgole”…
La mia inquadratura è una oscillazione, una movenza decisiva che mi conduce a seguire gli “indizi” dell’arte.
La capacità di “vedere” è indispensabile per chi vuole comunicare con lei, usando la fotografia come mezzo tecnico ed espressivo.
La mia reflex è un veicolo manovrato da me strumento.
La reflex nelle mie mani diventa veicolo di un espressione che è mia, e da comune individuo divento veicolo di un’ espressione che sta sopra di noi, ed è l’Arte. Che mi si manifesti in un suono o in una visione, io non sono altro che uno dei suoi potenziali strumenti comunicativi.
Per la mia sensazione, l’arte trova diretta rivelazione di sé nella Natura.
La luce, il suono, le foglie ferme o mosse sono come se fossero i sintomi.
La natura con i suoi elementi, diventa come parete ideale per la sua proiezione.
Quello che la Natura ci chiama a rappresentare, quando si concede a noi, io lo posso catturare con la mia inquadratura e poi donarlo con la mia interpretazione.
Quando da un segno, da una sua fisionomia mi sento colpito, che sia una roccia, una radice, un riflesso o una fiamma ondeggiante, sono per me elementi visibili, ma alla portata di molti che potrebbero trovarsi a “ osservare” l’ascolto del mare o un raggio di luna, magari con in faccia un sorriso pervaso di nostalgia.
Sta all’individuo la capacità di “coglierli” e “raccoglierli”, anche senza un mezzo tecnico, talvolta con la sola immaginazione, ecco che, come scrive Massimo, ci si può trovare in mezzo o di fronte a un mare che sembri un “giardino fiorito”, l’ individuo che sa osservare per “sentire”, può giungere a riconoscerlo, decide di coglierlo e comincia a navigare le sue onde o a camminare i suoi sentieri.
Massimo Innocenti, marzo 2010
Di fronte ai confini, dove il volume del mare si dispone e aspira a raccogliere le sembianze di un Giardino Fiorito, la scrosciante risacca lascia affiorare quei segni appena riconoscibili come tracce lasciate dal tempo, ma che del tempo non tengono il Senso.
Vedere gli ultimi lavori fotografici di Giovanni Bigazzi è sentirsi immersi in questo giardino, un Mare di varianti che possono esprimersi quasi a dettare i limiti, come dolci e inconsolabili sospiri che la brezza marina lascia sorvolare sul significato dell’esistenza.
Lavori nuovi, diversi, ma che allo stesso tempo ci rimandano al suo stile, a quella giusta tecnica acquisita che, adesso, Giovanni ne ha compreso e sviluppato ogni “brandello”di espressività.
Le fotografie che Giovanni Bigazzi ci presenta in questa mostra nascono tutte dal mare, con cromatismi che vanno dal nero assoluto, al blu cobalto fino a un azzurro diluito.
Provengono tutte da quel luogo invalicabile che è di fronte ai suoi occhi e che lo penetra fino a toccare le sue più profonde emozioni, rendendolo artefice variopinto di esaltanti vibrazioni dove coccolanti risvegli si riflettono fino a falciare stellati luccichii.
Le opere fotografiche di Giovanni sembrano nascondere una realtà…
Ma quale forma di emozione è il variare dei sensi se non nascondere la realtà per poi giungere di fronte ad essa e con essa trascorrere il tramonto di un singhiozzo o il fervore di un amore?
Ecco, in queste nuove fotografie si sente scandagliare il rumore della realtà naturale dell’essenzialità.
La natura marina è per Giovanni l’insieme delle differenze emozionali, sono come abbozzi tematici che si riservano del loro sguardo e lo donano al volto dell’osservatore.
La riuscita di Bigazzi è proprio in questo, non si piega solo a ciò che vede, ma si dispone verso il suono dei suoi occhi e con essi si redime, con strategie complesse lui punta obliquamente verso un personaggio, un sasso, un riflesso, o chi sa quale altra entità, ma quello che a Giovanni interessa non è cogliere l’attimo, ma dare all’attimo esistenza e da quel frusciante mescolio di acqua e salsedine trattenere a se il delicato senso del viaggiare.
Giovanni finge, e può apparire forte questo giudizio, ma se fingere lo porta nel sentiero delle sue più profonde emozioni, è giusto che finga, perché fingendo è seriamente artefice della sua arte, che è espressione delle sue debolezze e delle sue bellezze e fingendo è così serio che può ascoltare il suono delle sirene che gli ondeggiano intorno.
Giovanni Bigazzi è un fotografo, un artista irrimediabilmente attratto dalle sue emozioni e di esse coglie ogni più piccolo sostegno e in queste “marine” che parlano di un confine, Giovanni si sente semplice e vero e libero di Fingere le realtà della sua esperienza.
Opere diverse e tecnicamente giuste e inviolabili, ma che allo stesso momento nascondono ancora tutta quella purezza primaria che sta nel Sentire e non nell’Apparire, perché sarebbe facile essere tecnico esemplare e godersi l’artefice di ciò che si può fare, ma questo non può bastare a chi riesce ad ascoltare il rumore del tempo e con esso far volare le parole e lentamente farle ricadere tra le immagini di suoni nascosti.
Giovanni è mutato come il vento, ha rovesciato l’orlo del buio e l’abito della luce e con essi cammina sui confini del Mare, che potrebbe sembrare un giardino fatto di luce, ombra e di eternità.
Massimo Innocenti, settembre 2010
Per vedere non bisogna solo guardare, ma sentire e attraverso questa sensazione far scorrere l’incanto dello sguardo.
Non ha nessuna importanza, per me, sapere della vita di Giovanni Bigazzi, sono qui, di nuovo a raccogliere le sue emozioni, le sue “sconnesse” relazioni che intraprende nel saper vedere sentendo il richiamo del suo occhio.
Con affetto e puntuale convinzione, attratto dallo scandaglio emozionale di questo ultimo lavoro, sorpreso,e quasi convinto della certezza e, se posso permettermi di condividere quello che diceva Proust a proposito della creazione artistica:“… i veri libri sono figli del silenzio e della notte. L’uomo che scrive, dipinge o compone, non è lo stesso uomo che cena in villa, conversa con gli amici, scrive loro delle lettere o li mette a parte delle proprie confidenze.”
Mi sento di provare a pensare che questi lavori di Giovanni sono una testimonianza del suo essere diverso, doppio, quasi una meteora pulsante che si dimena in un tempo che non cerca l’esatta concentrazione di un obbiettivo, ma si espande come un fluido magnetico verso l’inatteso.
Questi lavori vibrano, confondono l’idea e si riappropriano del reale senso dell’attimo, come se vivessero un eterno notturno, dove solo la luce del segreto, del nascosto lasciano sentire lo scintillare delle forme.
Giovanni Bigazzi sceglie l’acqua, le ombre, il sentiero capovolto del “diluvio universale”. Preferisce, Giovanni, l’attimo dopo, quel viaggio invisibile che appare alle spalle, accanto, come un’ ombra che accompagna il suo freddo riflesso. Fotografie diverse con tempi e luoghi lontani, quasi opposti, distratti, ma vicini, simultanei, come il chiaro e lo scuro, il colore e il suo opposto, ma semplici di essere l’emozione della comprensione, la metafora della contemplazione immediata.
In questi lavori che Giovanni unisce e che nello stesso momento rende distanti, ci porta nel possibile comprendere, nelle parole di una fiaba che, assolutamente, diventa musicale. La musicalità del fluttuare, ritmato ad esso immanente, emerge dal passato col presente, il viaggio e la sua antitesi, la sua memoria: tra-scorre il tempo prima dell’evento e, appena dopo, avviene.
Questi lavori fotografici sono come due racconti che si compongono in un solo evento, trattenendo un inizio.
Come tanti frammenti si dividono e si “perdono”in una propria realizzazione, ritrovando e ritrovandosi nello sguardo diretto della natura.
Ciò che Giovanni Bigazzi rappresenta con queste fotografie è come se rendesse un volto allo sguardo, una fisiognomica della natura sorpresa nell’istante della sua riflessione. Un movimento fluido ed evanescente che si dispone attraverso la sostanza, quella trascendenza di frammenti direttamente prelevati da immagini, tanto da cogliere la chiave di volta che lascia lo sguardo intenerirsi dall’arco dell’orizzonte, fino a raggiungere il solo riflesso come unica prospettiva.
Queste opere si fanno sentire nel silenzio e con il silenzio raggiungono un lento percorso, un arrivo varcato dal leggero soffio di vento che spinge l’invalicabile verso la perdita del suo stesso limite. Fotografie tradotte con un linguaggio minuzioso, ma traboccante di percezioni e di impulsi emotivi, quasi distratti, ma subito ripresi dal frullo lento del vento.
Giovanni Bigazzi ama l’incanto della sua genuinità primitiva e da quella ritrae il suo stesso dilemma, la sua nevrosi creativa che lo accompagna tra i ricurvi viottoli dove l’attesa si accompagna alla sua ombra, quella notte luminosa che splende il lume accecante di un lieve battito di ciglia.
Fluida come l’acqua, l’occasione diventa sospensione, aria, tremolio di un’attesa e a quel punto un sospiro ferma per sempre l’emozione.
Queste fotografie di Giovanni arrivano per partire, spinte dal soffio che tra poco sarà lì.
Giovanni Bigazzi, maggio 2009
Durante la mia ultima “caccia fotografica” mi sono ritrovato in uno scenario insolito.
Fin da bambino mi ha sempre affascinato l’acqua, sia come elemento naturale che come elemento visivo che interagisce con il mio sguardo, con il vento, il sole e qualsiasi elemento che sia “toccato” dall’acqua.
Sono convinto che per entrare in armonia con qualsiasi paesaggio ci voglia sempre qualcosa che ti provochi un colpo d’occhio che tocchi l’anima.
Non è la prima volta che la pioggia caduta lascia il suo segno in una giornata di sole, ma non mi sarei mai aspettato di vedere un’alluvione in un parcheggio e di accorgermi come l’acqua abbia potuto, fare da specchio per le linee tracciate dall’uomo e al tempo stesso il riflesso del cemento avvolgere il tutto.
Nei primi minuti, mentre osservavo l’ambiente, intorno a me ogni cosa mi pareva incomprensibile ma ero incuriosito e piano piano cresceva la voglia di entrare in sintonia con questo scenario inconsueto.
Cosi per stimolare la mia “caccia all’immagine” ho pensato:
“Facciamo un esperimento, qualcosa di diverso, immaginando che l’acqua stia ancora vibrando dopo il temporale…”
Allora ho cercato di interpretare questo insolito scenario, tentando di vedere uno stretto rapporto tra il vento, il morbido movimento dell’’acqua e la geometria delle linee sottostanti e, tra uno scatto e l’altro, mi accorgevo che il parcheggio delineato dall’uomo, grazie all’intervento dell’acqua, non appariva più come elemento di disturbo, ma era divenuto qualcosa che si fondeva con l’ambiente, rendendo lo scenario unico.
Ho cominciato a muovermi attorno a queste distese d’acqua e mentre usavo i miei piedi per cambiare punto di vista, con il mio occhio nel mirino della macchina fotografica, rimanevo impressionato dal potere dell’acqua e di quanto possa alterare una visione e qualche volta provocare stupore anche semplicemente con l’immaginazione.
Vedevo le luci e le ombre, estendersi sempre di più sopra l’acqua e il cemento veniva
sempre più contaminato dal verde circostante, come se la Natura volesse riappropriarsi di un territorio antropizzato.
I numeri diventavano segni non più riconoscibili, ma sensazioni cromatiche che lasciavano al mistero il suo spazio e tutto diventava possibile.
Ispirazione, Scatto e Progetto si concludono con la visione di un Io fisico, di un Io sognante e di un Io riflesso, di un uomo che ha sempre più bisogno di ri-trovarsi nel contatto con la Natura.
Roberto Bastianoni, dicembre 2008
Ho visto Giovanni fin dalla prima infanzia muoversi a suo agio e crescere in un ambiente pieno di stimoli culturali di ogni tipo.
I suoi occhi azzurri osservavano attenti il mondo multiètnico che ruotava intorno alla figura di suo padre Giancarlo, genio incontestabile della musica italiana.
Ricco di interessi, curioso e sorprendente,“Giovanni-ragazzo”, un giorno si fingeva cantante strimpellando una chitarra immaginaria, poi sceglieva di dipingere ed allestiva mostre appendendo, ad un filo nel mio giardino, i suoi disegni in una continua esuberante ricerca.
Poi, crescendo, ha iniziato a interessarsi alla fotografia e subito le prime foto hanno rivelato una innata sensibilità alla composizione dell’immagine unita ad un costante impegno.
I contenuti si sono sempre più evoluti, rivelando momenti di ispirazione.
Giovanni non ha lasciato niente al caso: ha deciso di frequentare una scuola qualificata, per conoscere gli aspetti tecnici della fotografia dal bianconero al colore, sempre più interessato a migliorare la sua formazione.
Oggi usa entrambi i sistemi analogico e digitale e dalle sue recenti mostre si può vedere come sappia cogliere contenuti emozionali nuovi anche in soggetti apparentemente insignificanti per molti, con risultati di notevole impatto emozionale e comunicativo.
Prof. Franchino Falsetti, Critico d’Arte, ottobre 2008
La scelta della fotografia in molti casi si pone in alternativa alla pittura ed il fotografo cerca non tanto di riprodurre delle immagini, come episodiche od automatiche istantanee, ma di saper rintracciare nell’oggetto selezionato, simboli o metafore della realtà.
Si sa che nella tecnica fotografica si nascondono segreti e trucchi della
visione per la comprensione od alterazione dei vari significati.
La fotografia non si coniuga con la verità.
L’immagine fotografica è fonte di manipolazione e tutto si basa sul gioco delle tautologie, delle ridondanze , delle ripetizioni, degli omissis e delle censure o autocensure.
Il giovane artista fotografo Giovanni Bigazzi usa con competenza la macchina fotografica,con teleobbiettivi, di tipo classico e tradizionale, sapendo valorizzare lo spazio visivo e la scelta dei contenuti che, in massima parte, sono costituiti dalla presenza di un mondo naturale,estraneo alla quotidianità ed allo stereotipo degli oggetti di consumo. E’ un’operazione intelligente perché consente di trattare la tecnica della fotografia come medium investigativo, quasi una forma di interrogazione di ciò che vediamo in rapporto al nostro immaginario. Le sue fotografie sono come piccoli frammenti, reperti della realtà, modi di scrivere non solo con i campi percettivi dell’occhio, ma con l’occhio e l’orecchio.
Le immagini di Giovanni Bigazzi si vedono ascoltandole: la loro dimensione semantica agisce nel coinvolgimento dei nostri sensi, sollecitando uno stretto rapporto tra vista ed udito.
Il prevalere del bianco e nero aumenta il grado di attenzione e di ricostruzione dell’ambientazione e delle scenografie che danno rilievo allo sfondo ed agli oggetti posti in primo piano. Le sue dissolvenze ci ricordano quelle tipiche di Ansel Adams ricche di profondità e di ricercatezza nei dettagli.
Nella produzione fotografica di questo artista si coglie anche un messaggio, che possiamo considerare prevalente e ricorrente: scegliere la natura ed i suoi oggetti per ricevere la sensazione di essere soggetto del Tempo e del suo eterno rinnovarsi e ritrovarsi.
Massimo Innocenti, dicembre 2007
Parlare del lavoro fotografico di Giovanni Bigazzi, non mi è cosa semplice, non perché non possa o non sento il giusto rapporto, ma tutto quello che Giovanni ha fatto e sta facendo mi è vicino e, in un certo senso, mi sembra di dover affrontare qualcosa che mi unisce in un legame affettivo.
Le opere di Giovanni non sono fotografie, con questa affermazione non voglio deludere nessuno, ma sento nella sua ricerca fotografica qualcosa che va oltre, che cerca di superare le solite “presenze” stereotipate che sono solamente il supporto del convincimento critico.
Vedere le immagini di Giovanni non basta, bisogna capire il perché di quelle scelte, di quelle pause bloccate nell’ attimo dove tutto può essere diverso e l’opposto di ciò che sembra.
Non sono i temi che lui sceglie, ma l’emozione con cui si ferma di fronte a ciò che preferisce, che ti può far comprendere cosa vuole trasmetterci. Giovanni Bigazzi ascolta il tempo che gli è di fronte e lo sente, sempre, come se fosse la prima volta. L’impressione lo trapassa da parte a parte e lo rende nudo e, se mi posso permettere, folle. Una “follia” primordiale,”infantile” nel suo valore reale del termine; inizio, prima scelta. Un qualcosa che nasce dalla commozione; lo “struggimento” pre-maturo che trattiene la gioia di un bambino. Lui è lì al momento giusto, senza alcuna ricerca, ma con una strana curiosità che gli rende comprensibile il sorprendente “gioco” che è la natura delle cose.
Giovanni Bigazzi è un fotografo, un osservatore che preferisce l’attimo dell’ora e, ascoltando il suono nel tempo, ferma con il suo scatto il colore dell’istante. Giovanni non sceglie la cromatura desiderata è la natura stessa a decidere per lui, passa dai colori all’assenza, dal bianco e nero alla molteplicità caleidoscopica dell’impressione. E’ un “macchiaiolo” trascinato dal vento marino, che senza accorgersi della deriva contemporanea, salva la purezza dello sguardo. Le sue nature sono lo specchio del suo tintinnio mentale, suona nella sua mente il bagliore della luce e lo fa suo.
I lavori fotografici di Giovanni hanno avuto una molteplice evoluzione, nascono dal tentativo di far parte di un insieme, dove il luogo rendeva all’opera la sua giusta collocazione, per poi lentamente distaccarsi da quella prova e gettarsi verso una più attenta naturalezza emotiva. Adesso le sue foto parlano da se, non cercano il sostegno, ma preludono il messaggio attraverso l’armonia, fondendo lo sguardo nella tavolozza cromatica dell’esperienza. Le immagini di Giovanni Bigazzi si mostrano, oscillano nel tremolio dell’emozione e come un pendolo si equilibrano attraverso lo scandire del tempo.
In queste foto Giovanni si fa trovare dalla natura, è ella stessa che lo circonda e lo abbraccia in una coinvolgente danza dei sentimenti, lui non respinge nulla, ma cattura con lo sguardo il “volto” indiscreto della semplicità. La natura vista da Giovanni e già opera, a lui è toccato il merito di accompagnarla nel canto del vento; un’istantanea emozione, la foto.
Il suo modo di parlare ha il sentimento del tempo conservatore, Giovanni Bigazzi non cerca, trova tra le pieghe della luce l’abbaglio fluorescente che lo conduce a fermarsi, a sentire muovere il canto del desiderio e in quell’attimo blandire l’illusione.