Frame - Simple Portfolio Post

Angelo Minisci, settembre 2013

 

Vorrei iniziare il racconto, con un’immagine visionaria di Baudelaire che dipinge il poeta moderno come uno straccivendolo: “Tutto ciò che la grande città ha gettato via, tutto ciò che ha perso, tutto ciò che ha disprezzato, tutto ciò che ha schiacciato sotto i suoi piedi, egli lo cataloga e lo raccoglie…”. Egli classifica le cose e le sceglie con accortezza; egli accumula, come un avaro che custodisce un tesoro, i rifiuti che assumeranno la forma di oggetti utili o gratificanti tra le fauci della dea dell’industria.”

La metafora di Baudelaire ci porta, infatti, direttamente al nocciolo del problema: la domanda se sia possibile sostenere che la fotografia è un readymade o meno. Affiorano, fin da subito, problematiche centrali relative a entrambe gli ambiti: l’immagine del flâneur che percorre le strade abbandonandosi al caso e che, guidato dall’inconscio, sceglie con cura tra gli oggetti trovati e li raccoglie con un gesto istantaneo, è per noi significativa.

Normalmente siamo abituati a percepire e individuare le “cose” attraverso immagini fotografiche identificabili in modo esplicito. Il lavoro che Giovanni Bigazzi propone, è un’punto di vista singolare, attraverso inquadrature con riflessi di momenti e luoghi non sempre riconoscibili.

Cì propone un viaggio reale, non a rappresentare unicamente i luoghi simbolo né a scoprire angoli nascosti, ma a cogliere situazioni e porre l’attenzione verso frangenti a volte sfuggevoli a un occhio disattento. Vengono in questo modo rappresentate il mondo del reale, non esclusivamente attraverso la memoria che abbiamo di esse, ma con inquadrature inedite, seppure autentiche, d’immagini istantanee riflesse con effetti di sovrapposizione. Non si tratta di doppie esposizioni, di rielaborazioni fotografiche in postproduzione, ma di percezioni e tagli fotografici risolti e definiti nella loro compiutezza nell’attimo stesso dello scatto fotografico. Vedere, con il taglio della macchina fotografica concentrato su dei dettagli e su momenti singolari, può offrire visioni particolari e speciali. Si generano spesso situazioni aperte a letture ambivalenti nel rapporto figura-sfondo e dagli strani e a volte sorprendenti effetti fotografici. È uno “scrivere con la luce” che, in alcune particolari circostanze, riserva sorprese allo stesso autore. È anche un modo per mettere in gioco diversi stimoli visivi attraverso percezioni, che, seppure siano parziali e frammentarie e talvolta rapide e fuggevoli, sono reali e veritieri nel rappresentare il senso del luogo. Gli elementi mobili e temporanei sono in un contesto urbano altrettanto significativi quanto le presenze stabili.

Si tratta di un modo per acquisire nuove sensazioni e conoscere il mondo reale attraverso parti che possono in seguito, essere ricostruite con le immagini scattate e relazionate per singoli momenti situazionali, senza perdere di vista l’insieme ambientale. E’ quindi un modo di osservare i luoghi, gli oggetti e non solo finalizzato a ricevere nuovi impulsi sensoriali e interpretativi.

E’ facile cogliere la sottile poesia che attraversa questi scatti e frammenti di visione, lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla luce del sole colta in attimi magici, in momenti irripetibili e certamente tale aspetto è un motivo dominante, come un processo di svelamento dello “spettacolo” della natura: dal ritmo delicatamente mosso dell’acqua increspata, al vuoto riempito dei colori. Altrettanto intensa, oltre alla componente più emotiva del lavoro, è la ricerca sui valori cromatici e sulle possibilità mimetiche e allo stesso tempo trasfiguranti della fotografia. Nelle immagini dedicate all’acqua, emergono con evidenza qualità pittorica e segniche che sono peculiari della pittura: la vibrazione che nasce dal contrasto tra ombra e zone luminose si sovrappongono alla ricerca di una particolare tonalità cromatica che trascolora dall’azzurro, all’oro, dal rosso al grigio. E su due versanti diversi, ma sempre avvicinabili al gusto pittorico, sono i colori e i segni delle altre due serie d’immagini: decantate, dal ritmo lento e contemplativo, tornano a confrontarsi in una ricerca che ha i toni della raffinatezza e della sottigliezza visiva ed emotiva.

Il fotografare è la prefigurazione dell'esito espressivo che avverrà all'atto della restituzione in un quadro dell'opera come momento finale di sintesi di una propria ricerca poetica, fondata su raffinati equilibri formali, in cui il valore risiede tanto nell'opera che nell'atto fotografico. Le sue immagini, pur mantenendo come referente il soggetto fotografato, perdono il senso delle profondità, delle distanze, delle grandezze e dello spazio ambientale: sono inquadrature di particolari, di ombre riportate, di partiture spaziali e formali, di frammenti e dettagli isolati.

Un dettaglio visivo, enfatizzato nel processo di stampa, perde la propria fisicità e il senso dell'insieme cui appartiene per dissolversi nella bidimensionalità e, a volte, in una sorta d’immaterialità, al fine di comunicare una nuova appartenenza e identità espressiva. Il soggetto è razionalizzato per sottrazione, attraverso un riporto rappresentativo costituito da pochi elementi di un intenso cromatico.

Le opere di Giovanni accomunano figurazione e astrazione, in uno scambio continuo e ininterrotto: la figurazione è il referente della ripresa fotografica, l'astrazione è ciò che diviene la riproduzione separata dal soggetto fotografico originario. Accomunano anche racconto e iconicità: il racconto è la ripresa della realtà secondo un proprio itinerario di sensibilità narrativa che avviene con la raccolta di immagini visive, la iconicità è il depositare stabilmente sul quadro le immagini selezionate.

È il pensiero delle cose, è da intendersi il nostro pensiero sulle cose, soluzione che parrebbe la più ovvia, o davvero il pensiero esercitato dalle cose.

Le cose pensano, dunque.

Piccole cose: cose trascurate o trascurabili per la loro presunta insignificanza e banalità, per la loro piccolezza appunto. Il senso di piccolo da cui si vorrebbe partire e su cui s’intende qui puntare l’attenzione non corrisponde alle accezioni di “ristretto, angusto, secondario, irrilevante” ma rimanda piuttosto a quelle di “minuscolo, umile, dimesso, ordinario, quotidiano, familiare”. In questo senso, assumiamo che ciò che è piccolo ci è caro perché è domestico, addomesticato o addomesticabile e anche perché ci parla allusivamente – su piccola scala, appunto – di ciò che è grande, cioè importante e rilevante per noi, per la nostra vita immersa in una quotidianità apparentemente banale ma attraversata anche da relazioni, progetti e valori che ci premono e per questo sono grandi: essi lo sono individualmente per ciascun individuo e nello stesso tempo acquistano una valenza collettiva e condivisa, proiettando sul sociale la loro ombra.

Non si deve sentire tanto la necessità di uno spirito del tempo, ma piuttosto la necessità di un atteggiamento “cosciente” e responsabile. Scrive Giorgio Agamben in “Che cos’è la contemporaneità”: “…ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo!?”.