Frame - Simple Portfolio Post

Massimo Innocenti, agosto 2012

 

Quali i termini abbastanza semplici nella loro complessità e sufficientemente corrispondenti possono nella loro sublimità dar vita a una enunciazione emotiva?

Intendo parlare di due caratteristiche speculari, due caleidoscopiche dimostrazioni  solitarie

che si sospendono in rarefatte emozioni, dove le mirabili diradazioni si tramutano in sostanze e materie, in specchi infiniti e scemati da un proseguimento dell’immagine.

Potenzialmente è evidente, quanto semplice, l’io e l’altro riflessi in una sola dimensione, ma in mezzo, nel mezzo della sostanza, nella scelta artistica ci attende un linguaggio, una voce che non si deprime, ma che resta veicolo unificante fino a darci splendori e suoni attraverso il silente rumore dell’epilogo del tempo.  Il caso è che due artisti tentano di valicare tale rarefazione e non si scelgono per somiglianze tecniche, ma quanto per differenti principi: da una parte l’immagine riflessa e foto-grafata, dall’altra la pittura come infinito, una rappresentazione di un pensiero come pensiero.

Lo slittamento che i due artisti cercano di provare, nasce da un  possibile ribaltamento che li fa caricare di provabili equilibri, fino al punto di tracciare uno stesso percorso che,  rispetto al comune senso estetico, si va ad arrovellare in lievi scenari quasi tradizionali, quasi, pittoricamente parlando, prospettici, ma che invece si avvalgono di una totale differenza segnando una semantica distorsione, rendendoli l’uno vicino all’altro senza mai mescolare il linguaggio; e dove diventa necessario, subentra il caso, che certo ha costantemente un suo ritmo intromissivo, quasi a reclamare un suo, del caso, diritto, una specie di trama, in un rapporto a due, ma non prevedibile. A tale speculazione emotiva le probabili assonanze rappresentano un esercizio di forma, sembra una composizione letteraria, o meglio , un’armonia di segni e parole conditi da materia e sostanza: una casualità barocca e informale, fino a quel reale orfismo metafisico, che lascia decadere ogni possibile impegno, per denunciare qualsiasi possibile disinpegno.

Quanto al lavoro  dei due artisti non possiamo individuare delle somiglianze, perché queste renderebbero vano ogni tentativo poetico, quello che invece bisogna cogliere sono le varianti discordanze e le possibile assonanze e il tentativo di violare un percorso con una organica funzionalità espressiva. La scelta delle pitture e delle fotografie, non sono una risultanza interpretativa, ma quanto un valore trascendente che va ad incunearsi nel caso e nel vuoto, fino a manifestare un tracciato inesplorato, ma preciso e ben dettagliato, dove funzione e crescita danno al tempo la precisa probabilità di occasionalità. Così facendo le opere si coltivano un proprio terreno, formando limiti invisibili e nello stesso tempo valicabili fino al punto di riconcepire il limite.

Giovanni Bigazzi usa la fotografia, mentre Zeliko Pavlovic la pittura, entrambi lavorano da anni a ricerche separate, ma l’occasione di contrapporre le rispettive tematiche in uno spazio, o meglio, linguaggio comune, li ha resi soggetti di un paesaggio inarginato.

La particolarità  di Bigazzi sta nella sua stessa “elementarità”, così articolata nei particolari che ogni fotografia diventa assenza in continua ricerca di presenza, tale a variare, come un vortice di moscerini prima di un temporale, in purezza qualunque condizione naturale. Per poi travaricare ogni possibile linea di demarcazione e raggiungere una storia fedele al mistero di un linguaggio emotivo, nell’inevitabile parte d’ignoto che esiste in una possibile verità. Ed  è come una presenza che va al di là dei limiti, per riconoscere un patrimonio che non si inebria solo di colori, ma che rifiuta il sentimentalismo che cade nell’intimismo e nella possibile scadenzialità di un probabile spettacolo di se stesso, ma invece cerca e ferma immagini divulgatorie d’ incanti inattivi, dandogli voce e sospiri, per poi incominciare dall’esistenza e raggiungere un filo che unisce, come una chimera, l’illusione metafisica di un possibile tempo inatteso.

Zelico è pittore, dipinge la mente nel suo passato, ma volontariamente la ricorda come intuizione identica al punto di partenza, così facendo trae dalla sua esperienza un’ irresistibile intuizione che gli fa arginare la storia per poi dirigersi verso un infinito astratto. Così, sente, non solo la discordanza tra il reale e la sua dimostrazione matematica, ma quanto la propria verità da un unità originaria come sorgente universale e dove il semplice mescolamento di linee e ritmo,  vanno a forgiare uno spazio dedalico pari alle più oscure architetture mentali. Non sceglie il mistero o l’ignoto, ma quanto l’esitazione dimostrata dall’osservazione di un attimo e la sua diffusione in proprietà geometriche, vivendo costantemente irradiazioni emotive che, affacciandosi al tempo, aumentando i quadri delle distanze dal corpo a un autentica proporzione immaginaria, trovando così un assoluto originario.

Nell’intreccio compositivo  e nel suo variare, che i due artisti tentano di rappresentare, è possibile inserirsi assestando spazi di un unicità poetica, che non traggono elemento da una sola , ignota armonia, ma quanto da una possibile suggestione analitica. Spazi di sintesi in minori luoghi, attimi di circoscrizione fungenti da fondi o quinte di scene principali, tratteggianti quadri nei significati assolutamente invisibili e, nello stesso istante, riflettenti, al punto di raccontare mute sensazioni e note di colore.

Ecco quindi il sentimento che si aggira tra le violabili circostanze, dove la partecipazione, trovando la giusta dimensione tra un silenzio colorato e un brillio evanescente, si dimostra parallela alla stessa poetica, invitando  il bilico soffermare della vista in una fenomenica cecità interiore. In questa possibile variazione di combinazioni  è la ricerca di questi artisti, o meglio, della loro sovrapposizione di quadri infiniti che tendono sempre più ad allargarsi in misteriosi crepuscoli, dove ogni frattura si annulla per trovare nei sensi l’uso di una facoltà, quella principe: quell’aurora senza tempo che decanta il suono con lo spirito.

Questa duplicità crea due ordini di veduta, due parallelismi che cercano semplicemente il mezzo, ciò che sta tra loro e lo spazio indiscutibile di una possibile rivelazione, una verità senza dogmi o pregiudizi, ma tentando solamente di cercare un carattere conduttore che trascina la variabile circostanza verso una desiderata sosta. Entrambi indagano e avanzano per ipotesi, lasciando scoperti tutti quei segni e sensazioni che sono serviti per decifrare giuste proporzioni e slanci infiniti d’incanti. Ciò che una trama di un racconto, senza alcun soggetto, cerca in un probabile personaggio di far raccontare e interpretare il verso di un possibile dialogo.   E allora, qual è il fatto? Non soltanto in ciò che si dimostra, che ci dimostrano, ma quanto in una pensabile conclusione che non possiamo negare, anche se tale negazione è proprio nella valenza di ciò che vediamo in questo tentativo, ma il solo  negarla, la conclusione, ci rende partecipi a  questo viaggio d’uscita da una deduttiva esperienza. Ma è all’infuori della logica la veracità poetica del loro cercare, e tale idea è piacevole, discutibile, ma senza dubbio accattivante proprio perché dimostra una non possibilità di tracciare chi sa quale concezione o logica plausibile, se non quella di trovare il punto infinitamente lontano di un cerchio e il suo assioma d’attrazione poetica.

Sarà prontamente fattibile non comprendere tale tentativo, ma la circostanza e il valore dei due artisti  possono delucidarci da qualsiasi ombra e se nella loro ricerca esiste una discordanza, è questo che cercano: disarticolare le armonie per correre all’ombra dell’irrelativa emozione e percepire quelle irradiazioni uniformi che si vanno a conficcare in ogni luogo.

Dunque, questi lavori, questo lavoro,  perché e di un solo lavoro che saremo spettatori, di un unico percorso che si manifesta in tutta la sua intenzione narrativa, in quel modus scribendi dove riflettere la forma e la sua dimensione, la storia a conferma di talune costanti che dallo spirito al corpo si rendono immagini e pensieri. Immagini e riflessi che sono nati tutti da una facoltà  intuitiva, da una madre che è origine di tutte le scienze e padrona dell’immaginazione, che tra il reale e il suo opposto , lascia divertire i preamboli del sobbalzo fino a decantare la possibile apparizione: ecco quindi il sentimento, ecco l’universo, eccoci nella Terra e immersi in essa.

“…dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; …”

da “L’INFINITO” di Giacomo Leopardi