Frame - Simple Portfolio Post

Aura
…il respiro dell’atmosfera.

“…trovassi al fiume in un boschetto adorno che lievemente la fresca aura muove.”
L. Ariosto


Torno a presentare un nuovo lavoro di Giovanni Bigazzi, artista che da anni ricerca  un diverso linguaggio e una possibile comprensione con la propria fotografia.  Con questo non voglio sembrare troppo esaustivo, credo che  la cercata corrispondenza si possa dire che sia stata intravista, anzi trovata e compresa.
E’ un  lavoro che si pone nella percezione dei sensi e contemporaneamente si vuole prestare a una diversa e possibile interferenza tra immagini e un percorso interiore, dove le attenzioni  si dispongono  in attesa, fissando il silente  raggio di un atmosfera.
Presento questo lavoro citando un pensiero del poeta Inglese Dylan Thomas, “ …spesso lascio che un immagine si produca in me emozionalmente, e quindi applico ad essa quanto posseggo di forza critica e intellettuale…”. Credo che, ugualmente, nella mente , o meglio, nello sguardo di Bigazzi, si affittiscono quei significati soggettivi che vanno a intervallare quel “suono” di significati che solo se cogli lo scorgere di una tematica,  si possono diversificare nell’apprendimento naturale. Questo avviene se la visione che si cerca è fondamentale e apparentemente in contraddizione, come dire: quello che sento è così evidente in ciò che vedo che mi basta ascoltarlo e tutto diventa magia e desiderio, e solo se il mio respiro mi permette di assaporare quel docile vento di una nascita o di una morte, posso decidere di soffermarmi e violare quell’intimo “racconto”.  Perché è di un racconto che l’artista ci invita a vedere  una trama che si dilaga in diverse, possibili ambivalenze poetiche e nello stesso istante diventano immagini, scatti fotografici che , come in una scena senza soggetto, riescono a raccontare un possibile dialogo.

Le fotografie che vediamo sono accuratamente scelte e decise, e non solo nella loro rappresentazione, ma anche in una determinata selezione tecnica. In questo lavoro la possibilità di una luce, di un ombra, di un contrasto, di una variabile cromatura, hanno un senso esplicativo nell’unità sostanziale , creando la continuità di un immagine fino a scontrarsi con l’essenzialità di una percettibile atmosfera  e  crearne una in sequenzialità emotiva. Ci appare come un solo intreccio, fatto di simboli e di sostanze naturali, che in principio hanno forma e in un secondo momento diventano metafore della stessa identità.
Vorrei soffermarmi su alcune delle fotografie che Giovanni Bigazzi ha installato. Non voglio tracciare un profilo tecnico e ancor meno un giudizio critico, ma quanto un effettivo sguardo su lo stesso sguardo che l’artista ha deciso di fermare.

L’intrico delle immagini e il punto di vista  nelle fasi che riassumono tutto il percorso immaginario, ci conducono ad alcune affermazioni di carattere soggettivo, ma anche puramente emotivo.
La scelta di tracciare una simbiotica decifrazione di luci e ombre e poi destinarle alla sanità di un possibile mito, lascia assaporare qualsiasi interpretazione, ma l’accuratezza con cui vengono decisi gli spazi e le immagini, immediatamente ci mandano nel soggetto e nell’allegoria del “viaggio”  che Bigazzi vuole condurci.
La densità dei segni, che nelle inquadrature sono evidenti fino a traslucidare  il diaframmatico spettro cromatico e il lucido smerigliamento dei soggetti appena accennati, lascia intra-vedere la sostanza della forma fino a riconoscerne la forza e l’ambiente, come uno specchio antico, dove il riflesso appare appena evidente e offuscato e radente al punto di variarne ogni sembianza.

L’evocazione delle immagini, in apparenza assoggettata a scampoli della natura, o meglio, ad angoli di paesaggi, quasi zone limitrofe , leggermente variate da un vento primordiale, dove piante ventose si appoggiano in bianchi putridi acquitrini o rottami di legni antropomorfici, scambiano l’ombra con la reale sostanza, dando vita a un “viaggio” dell’anima. Quelle “zone”, cosi dedite a presenziare un tempo e da questo fuggirne nell’irrevocabile flusso  della vita, spinge la scelta dell’artista verso una spiritualità inquieta e nello stesso momento sicura ancora della salvezza.
Bigazzi sistema le sue foto-zone, l’una in relazione all’assunto poetico, dove il silenzio e l’attesa creano un introspezione fantastica, una domanda dove non dobbiamo dare risposta, se non verso il funesto desiderio di dominio.  
L’opera, le fotografie si installano seguendo non tanto lo spazio ma quanto il racconto e, posso azzardare, mi viene in mente un film  del 1979 di Andrej Tarkovskij, “Stalker”; un importante lavoro, dove la trama è assoggettata al tempo delle immagini e regnano con forza e profonda sensibilità nello sguardo dell’osservatore.

Un opera filmica, ma carica di fotografia destinata al racconto, ed è in questo che l’associazione mi è venuta spontanea e non tanto nel tema del film, ma quanto nella scelta fotografica e  nel porre il silenzio come soggetto primario a scandire il tempo delle stesse inquadrature. Bigazzi, in un certo senso, percorre lo stesso schema semantico, acquisisce la logica e il senso e , con accettazione, si porta in quella stessa metafora formale: comprende l’importanza del soggetto e lo fa particolare e frammento.


La stessa costruzione “topografica” che Giovanni sceglie nel sistemare le fotografie, allarga la visione verso la simbolizzazione degli stessi soggetti che ha fotografato. Sceglie la leggenda sacra, quell’aura che circonda determinati simboli e li rende ricerca di un “Giardino dell’Eden” che non sdegna di presenze trovate nel mito e, come un requiem, estremizza  con il segno dell’elemento, il fondo più fondo, dilagando lievemente in placate voci della natura.
Posso solo aggiungere che l’elevata ricerca fotografica di Giovanni Bigazzi, in questo progetto, si è avventurata in un diverso modo di rendere possibile un proprio bisogno. Il tono severo con cui cerca di entrare in relazione con il sentimento lo porta lontano, dove  principio e fine sono la stessa cosa , e come un fuoco lentamente  spinto da un leggero venticello, può diventare un falò.
E adesso che l’artista ha scelto di raccontare a noi tocca solo leggere le sue immagini e tramutare il semplice fatto in una più profonda relazione.


“…Vorrei volgermi e correre
        Alla terra nascosta
       Ma il sole chiassoso
           Giù battezza
               il cielo.”

Dylan Thomas



Massimo Innocenti
Agosto 2013